Universo Cosplay

l termine cosplay deriva dalle parole inglesi “cos” ovvero costume e “play”, Il dizionario Treccani definisce il cosplayer “chi ama indossare i costumi dei personaggi dei film, dei fumetti e dei cartoni animati preferiti”. 

Le origini del cosplay non sono ben definite ma pare risalgano agli anni ’70 quando, in Giappone, in alcuni Comics Market, ovvero fiere del fumetto, apparvero alcune persone travestite da personaggi dei fumetti. Questi sembra abbiano preso ispirazione da quello che accadeva negli Stati Uniti d’America dove era frequente che, durante manifestazioni a carattere fantascientifico, si radunassero appassionati di Star Trek indossando costumi propri dei protagonisti del film. Allargando un po’ il contesto però appare evidente che l’idea di omaggiare personaggi di fantasia con dei travestimenti è ancora più antica, tuttavia questo fenomeno raggiunge una rilevanza sociale più marcata nel 1984 quando, durante il Word Con di Los Angeles, il reporter giapponese Nobuyuki Takahashi, pronuncerà per la prima volta il termine cosplay. 

Nel percorso che ha portato all’ascesa del fenomeno, sono state importanti serie come Gundam e Yoshiyuki Tomino, ma è nel 1995 con Evangelion che il cosplay raggiunge il suo apice e da quel momento si diffonde e si consolida. Il mercato si rende conto della potenzialità del fenomeno e nascono catene di negozi e siti web che vendono o noleggiano abiti e accessori utili per la messa in scena del personaggio. Parallelamente si creano vere e proprie community online nelle quali parlare del cosplay, scambiarsi idee, consigli, esperienze.

Il fenomeno si ispira principalmente a personaggi di anime e manga ma si estende anche a personaggi dei videogiochi, fumetti, film, cartoni animati, libri. Il vero cosplayer è colui che si produce il vestito da solo e che poi non solo lo indossa, ma interpreta il personaggio, nelle movenze, negli atteggiamenti.

In Italia il fenomeno del cosplay ormai è talmente diffuso e consolidato che ci sono appuntamenti annuali di rilevanza nazionale, sparsi in tutto il paese. Tra i più conosciuti c’è il Romics, che si tiene a Roma, il Lucca Comics and Games in Toscana, Abissola Comics a Savona, Cittadella Comix in provincia di Padova. Gli appassionati del cosplay distinguono gli eventi in meeting, cioè raduni, di dimensioni quindi più ridotte e nei quali si radunano quasi esclusivamente cosplayer, e manifestazioni, eventi cioè di maggiore rilevanza che prevedono la presenza di un pubblico. Durante le manifestazioni più importanti, a volte, possono esserci selezioni per Contest internazionali.

Il sito Cosplayhub riporta un elenco dei cosplayer più famosi a livello mondiale, sottolineando come, le abilità del vero cosplayer, oltre a interpretare fedelmente il personaggio, prevedano anche la produzione personale del vestito e di tutti gli accessori propri del personaggio, aspetto sicuramente non semplice considerando la ricchezza di particolari e la complessità di certe figure, nate come personaggi animati, non come esseri da stare realmente e concretamente in movimento. Di seguito ne riportiamo alcuni.

Andy Rae interpreta Paladin di Word of Warcraft
Nadya Sonika interpreta Cammy White di Street Fighter
Danquish interpreta Sam Gideon di Vanquish
Justin Acharacter interpreta Deathstroke
Andrea Vesnaver e Massimo Barbera interpretano Mazinkaiser e Ufo Robot Grendizer

SITOGRAFIA:

cosplayhub.com

cosplayitalia.it

italiancosplay.com

sognandoilgiappone.com

treccani.it

watabi.it

Busker: fare della strada il proprio palcoscenico

Il dizionario Garzanti definisce Busker “artista di strada; in particolare chi suona strumenti, o canta  o si esibisce in numeri di mimo o saltimbanco”.

I buskers sposano l’arte ma anche uno stile di vita che li vede girare le piazze e le vie delle città portando la loro arte gratuitamente, ricompensati da offerte che, chi si imbatte in loro, può scegliere di lasciare.

In Italia è piuttosto complicato essere un artista di strada in quanto non c’è una regolamentazione nazionale, bensì la normativa varia da regione a regione. A Firenze è particolarmente complesso esibirsi poiché viene richiesto essere residenti, a Milano è prevista invece l’iscrizione ad una piattaforma online nella quale specificare la zona di esibizione, tra le 250 disponibili, ed è necessario attendere il permesso ottenuto e tenerlo con sé nel corso della performance. Attraverso la piattaforma è possibile monitorare le esibizioni in tempo reale. Questo sistema, introdotto nel 2012, ha reso il capoluogo lombardo, secondo una ricerca internazionale, la terza città al mondo per arte di strada, tuttavia è stato fortemente criticato in quanto sembra privilegiare figure non professionali, con una forte ricaduta quindi sulla qualità dell’arte proposta. A Torino e a Bologna invece risulta più semplice potersi esibire. Generalmente chi decide di intraprendere la vita dell’artista di strada inizia dall’estero, proprio per la maggior semplicità normativa, che più si confà, anche idealmente, a coloro che decidono di fare della strada il loro palcoscenico. A Londra ad esempio, i buskers hanno l’appoggio del sindaco, e consultando il sito buskinlondon.com è possibile avere informazioni chiare sulla normativa vigente, creare un profilo, essere informati su eventuali competizioni e conoscere gli ambasciatori, ovvero artisti famosi che hanno deciso di appoggiare l’arte di strada. Passeggiando per le vie di Londra è frequente imbattersi in musicisti, cantanti, disegnatori, ballerini, mimi, circensi che danno colore e vivacità alla città stessa. Anche la Germania è molto aperta in quanto a arte di strada, Berlino infatti è spesso il punto di partenza, insieme alla capitale inglese, per chi sceglie questo tipo di vita.

Essere un busker è una scelta molto coraggiosa che raramente le persone perseguono per tutta la vita. Richiede una capacità di stare nell’incertezza, intesa in senso ampio: non vi è certezza sui guadagni che arriveranno dopo ogni esibizione, non vi è certezza sulle persone che si imbatteranno nella performance, non vi è certezza sulle condizioni climatiche che possono far interrompere l’esibizione o limitare fortemente il numero di spettatori che ne fruiranno. Le strade sono il palcoscenico, non c’è quella struttura che porta con sé una forma di rassicurazione nel pensare che chi paga il biglietto è lì per vedere quel cantante, quel ballerino, quello spettacolo.

Ci sono alcuni artisti famosi che hanno deciso di esibirsi come buskers, spesso senza farsi riconoscere. Ad esempio Sting che, camuffandosi con un cappello, guadagnò appena 40 sterline; il violinista Joshua Bell nel 20007 suonò con uno Stradivari nella metropolitana di Washington, ottenendo 32 dollari, di cui 20 da una coppia che lo riconobbe; Lucio Dalla nell’89 partecipò al Ferrara Buskers Festival duettando con Jimmy Villotti; Bruce Springsting si esibì a Copenaghen nel 1988 e poi nel settembre del 2011, quando si era recato a Boston a trovare suo figlio, in attesa che arrivasse suonò in strada utilizzando una chitarra acustica. A New York si sono esibiti invece gli U2, i Maroon 5 e Jimmy Fallon.

Repubblica, nel 2016 ha pubblicato un articolo intitolato “La dura, gioiosa vita dei buskers in Italia:    scegliere la strada è stato spontaneo”, in cui ha riportato alcune interviste ad artisti di strada. Di seguito alcuni stralci. Dario Rossi, percussionista diplomato al collegio Saint Louis di Roma, ha scelto di dedicarsi alla musica di strada dopo alcuni anni di insegnamento e racconta di aver preso questa decisione nel 2011, partendo da Londra ma sentendo Berlino come suo trampolino di lancio e a seguire Amsterdam. “Suono utilizzando diversi oggetti riciclati: secchi, pentole, scarti industriali, tubi, catene, pezzi di scaffali da lavoro. Diciamo così, utilizzo tutto ciò che riguarda l’ambiente casalingo e l’edilizia. La sperimentazione sonora mi ha sempre affascinato, così ho deciso di fare musica elettronica utilizzando mezzi di fortuna. Di fatto, applico la tecnica che ho imparato studiando a Roma, su un set alternativo. (….) la strada è il più ampio palcoscenico che un artista possa avere. Nei locali le persone sanno chi sei e se decidono di pagare un biglietto è perché vogliono venire ad ascoltare te, in strada sei esposto a tutto: può capitare che la polizia ti interrompa, che venga a piovere o può andare benissimo. Ogni volta è come se fosse la prima.”

I Rumba de Bodas, un gruppo di sette musicisti che fanno cover jazz, ska e hanno pubblicato due album propri, iniziano questo progetto nel 2008 (inizialmente erano 24 elementi) e raccontano “la voglia di suonare in strada c’è sempre stata, lo consideriamo il modo migliore per comunicare con il pubblico (…) Scegliere la strada anziché il palco è stato spontaneo”. Come pure naturale è stato spostarsi, fin da subito, in Gran Bretagna: “per sette volte abbiamo passato lì dei mesi ad esibirci. Si erano creati dei circoli bellissimi, avevamo contatti a Londra, Bristol, Edimburgo, Canterbury. Siamo arrivati a fare anche tre, quattro spettacoli al giorno. (…) 

eravamo determinati a fare di questo progetto un lavoro. Allora abbiamo iniziato a suonare in strada tutti i week end, con il freddo, il sole o la neve, per le città dell’Emilia Romagna. Questo ci ha dato visibilità, è stato grazie alle esibizioni in strada se poi sono arrivate le richieste di concerti. E da allora portiamo avanti parallelamente i due progetti: strada e palco”. I Rumba de Bodas hanno piano piano quindi ottenuto fama e successo e, se prima, facevano in Italia circa un concerto al mese, nel 2016 hanno un tour estivo con oltre 60 date. Elia, un componente del gruppo, ironizza “ci siamo un po’ imborghesiti, quando viaggiamo ci fermiamo in ostelli o hotel. Anni fa la fa la situazione era totalmente diversa, a volte non sapevamo nemmeno dove avremmo dormito. Ci fermavamo con il nostro furgone nei parchi, o nei piazzali degli Autogrill. Una volta, in Scozia, abbiamo addirittura chiesto ospitalità dal palco”. Racconta quanto internet e i social siano stati importanti per farsi conoscere su ampia scala: “Facebook, ad esempio, cerchiamo di usarlo nella maniera più intelligente possibile, coinvolgendo il pubblico e aggiornandolo su dove ci esibiremo. Abbiamo un discreto seguito”. Infine Repubblica riporta l’intervista a Giacomo Gamberucci, diplomato giovanissimo al conservatorio in violoncello nel 2007: “quando sono arrivato a Copenaghen me ne sono innamorato e ci sono rimasto un mese intero. È proprio qui che ho iniziato a suonare in strada, il violoncello acustico. Copenaghen era una città libera e tollerante, anche perché all’epoca i busker non erano ancora tanti”. Parla di come il mondo dell’arte di strada sia in continuo mutamento e di quanto la sua evoluzione sia indissolubilmente legata ai cambiamenti politici. Giacomo, dopo alcuni anni a suonare col suo violoncello in giro per l’Europa racconta di aver conosciuto un cantante e chitarrista col quale ha deciso di mettere su un duo “abbiamo girato gran parte delle capitali europee, stavamo via un paio di mesi, poi tornavamo in Italia per qualche settimana e poi partivamo di nuovo”, il sodalizio dura due anni poi il gruppo si scioglie “il mio collega ha registrato un album in studio, io non voglio lasciare la strada. Amo la semplicità e la spontaneità di questo tipo di spettacolo che non è filtrato. Non devi accontentare i gestori di un locale (….) suono il violoncello da solo e non più a sostegno di un cantante. E ho iniziato a girare l’Italia. Nelle città piccole è più facile, le persone non conoscono bene questa realtà, quindi sono incuriosite dai musicisti di strada e tu puoi suonare più liberamente. In ogni caso, l’aspetto fondamentale, per me, è lo scambio: nello scegliere il mio repertorio non ho avuto problemi a trascurare le mie preferenze. Suono sempre quello che penso possa piacere al maggior numero di persone”.

SITOGRAFIA:

Accademiapolacca.it

garzantilinguistica.it

repubblica.it

Wikipedia.org

Tatuaggio: una pratica antichissima.

Il tatuaggio Maori nella donna.

Il termine “tatuaggio” ha origine nel 1769 quando il capitano James Cook lo trascrive mentre annota usi e costumi della popolazione di Tahiti. In origine il termine era “tattow”, derivato dall’onomatopea “tau-tau” che riproduceva il rumore del picchiettare del legno sull’ago per bucare la pelle. 

I primi ritrovamenti di corpi tatuati tuttavia sono molto più antichi. Nel 1991 nelle alpi Otzatel, al confine tra Italia e Austria, viene ritrovato un corpo congelato e perfettamente conservato, risalente a circa 5300 anni fa, che presentava svariati tatuaggi, ottenuti sfregando carbone su incisioni verticali della pelle. Otzi, così viene soprannominato l’uomo, aveva deformazioni ossee in corrispondenza dei tatuaggi, ciò fa pensare gli scienziati che quelle incisioni colorate servissero per curare o lenire il dolore di fratture o traumi precedentemente subiti.

Storicamente il tatuaggio assume altre valenze. In Egitto, ad esempio, vengono ritrovate mummie femminili tatuate risalenti al 2000 a.C. e nelle pitture funerarie i corpi delle danzatrici appaiono quasi sempre tatuati. I Celti pare tatuassero sul proprio corpo segni che rappresentavano le divinità che adoravano, quali toro, cinghiale, gatto, pesce, uccello, come segno di devozione. I tatuaggi spariscono invece nell’Antica Roma quando la credenza della purezza del corpo impediva di poterlo disegnare in maniera indelebile, lì i tatuaggi erano riservati esclusivamente a criminali e condannati, con lo scopo di marchiarli in maniera indelebile. Le battaglie con i britannici, per i quali il tatuaggio era un segno distintivo d’onore, modificarono la cultura romana e i soldati adottarono la pratica per esprimere la forza, il coraggio, la ferocia. I primi cristiani si tatuavano la croce sulla fronte fino a che Papa Adriano nel 787 d.C. ne proibì l’utilizzo. Nel vecchio continente gli ultimi ritrovamenti che testimoniassero la presenza culturale del tatuaggio, antecedenti al 1700, risalgono al periodo delle crociate, durante il quale i soldati si tatuavano la croce cristiana per ricevere la sepoltura secondo il rito cristiano, in caso di morte in battaglia.

Nel resto del mondo tuttavia il tatuaggio continuava ad avere una valenza culturale estremamente significativa. Ad esempio a Tahiti alle ragazze che raggiungevano la maturità sessuale venivano tatuate le natiche, gli hawaiani sofferenti si tatuavano tre punti sulla lingua, a Samoa il tatuaggio era invece una sorta di prova di coraggio e forza interiore per la quale veniva tatuato tutto il corpo per cinque giorni consecutivi. In Nuova Zelanda i Maori firmavano i loro trattati con fedeli repliche dei loro tatuaggi facciali, chiamati “moko”. Agli inizi dell’800 prende il via una macabra e crudele usanza consistente nel barattare pistole con teste tatuate di guerrieri Maori; la richiesta in occidente era talmente alta che i commercianti di schiavi iniziarono a tatuare gli indigeni per poi decapitarli e venderne le teste. Solo nel 1831 il governo britannico dichiara illegale l’importazione di teste umane. In Giappone ci sono notizie di tatuaggi a partire dal quinto secolo a.C., pare che il governo giapponese vietasse alla popolazione di basso rango di indossare kimoni decorati e che queste persone, in segno di ribellione, si tatuassero completamente il corpo dal collo fino ai gomiti e alle ginocchia, tenendo poi nascosto il corpo decorato sotto i vestiti che il governo gli imponeva di indossare; questo fino al 1870 quando anche questa pratica fu ritenuta illegale dal governo nippone in quanto considerata sovversiva, ma l’ennesima legge repressiva non intaccò la cultura del tatuaggio che continuò a svilupparsi nell’ombra.

Nel 1891 il newyorkese Samuel O’Reilly brevetta la prima macchinetta per tatuaggi, invenzione che segna l’abbandono delle precedenti tecniche, estremamente più laboriose e dolorose. La macchinetta elettrica ad aghi segna anche un cambiamento nella simbologia del tatuaggio stesso: tradizionalmente, soprattutto in Asia, Africa e Oceania, l’esperienza del dolore avvicinava l’individuo alla morte esorcizzandola, così come il sanguinamento controllato, che si verificava in particolare con le tecniche usate nell’antichità per tatuare, aveva una funzione esorcizzante essendo il sangue l’emblema per eccellenza della vita.

Nel secolo passato il tatuaggio passa da essere negli anni ’20 un qualcosa proprio di persone che lavoravano nei circhi, completamente tatuate che diventavano un’attrazione per il pubblico pagante, a un marchio di minoranze etniche, marinai, veterani di guerra, malavitosi, fino agli anni ’70 quando viene adottato dalla cultura punk come simbolo di ribellione rispetto alla rigidità morale propria della cultura imperante. 

Uno studio dell’Università di Pisa (“Sulla nostra pelle. Geografia culturale del tatuaggio” Macchia, P., Nannizzi, M.E.) riporta che il 12,8% degli italiani ha almeno un tatuaggio, in particolare nella fascia d’età tra i 18 e i 44 anni. Percentuale in linea con la media europea ma nettamente inferiore a quella statunitense dove un terzo della popolazione risulta essere tatuata. I tatuatori sono più diffusi al nord, poi segue il centro Italia ed infine il sud e risultano essere complessivamente circa 2800. 

Oggi il tatuaggio ha probabilmente perso un po’ del proprio valore sociale e culturale ed è diventato più un modo per esprimere la propria individualità, in una modalità che sicuramente a livello antropologico ha degli aspetti significativi, ma che sono più legati ad una scelta personale. Si notano immagini o stili ricorrenti in base agli anni nei quali si effettua la scelta di tatuarsi, così come zone del corpo preferite in determinate decadi. I tatuaggi possono essere soltanto neri o a colori e possono rappresentare immagini, scritte, simboli.

Il tatuatore ha una grande responsabilità, vista l’indelebilità della sua arte. Utilizzando di fatto strumenti che creano delle lacerazioni nella pelle è fondamentale che lo studio e la strumentazione utilizzata sia sterile. Un tatuaggio infatti richiede 20/30 giorni di guarigione e una cura, in quella fase, puntuale e attenta.

SITOGRAFIA:

ansa.it

tatuaggi.it

Tatuatori.it

Il potenziale nascosto dentro alla figura dell’influencer

L’enciclopedia Treccani definisce l’influencer come “un personaggio popolare in Rete, che ha la capacità di influenzare i comportamenti e le scelte di un determinato gruppo di utenti e, in particolare, di potenziali consumatori, e viene utilizzato nell’ambito delle strategie di comunicazione e di marketing.” La figura dell’influencer nasce infatti, o forse meglio dire si sviluppa, dalla necessità delle aziende di trovare una nuova strategia di marketing per sponsorizzare i propri prodotti in una modalità che coniughi da una parte le carenze di un mondo pubblicitario tradizionale saturo e con poco appeal e dall’altra un sempre maggior utilizzo, da parte di fasce progressivamente più ampie di popolazione, dei social network. 

Il giro di affari di cui è protagonista questa nuova figura, si aggira intorno ai 1000 milioni di euro e coinvolge oltre 20 milioni di persone in tutto il mondo. L’influencer è dunque spesso un blogger, un instagrammer, uno youtuber o una celebrità intesa nel senso più classico, che ha un buon seguito sui social e che influenza, appunto, il proprio pubblico pubblicizzando prodotti di aziende che gli si rivolgono per farlo. La pubblicizzazione di questi prodotti passa spesso dal semplice fotografare se stessi mentre si utilizza il prodotto, o lo si indossa, o lo si mangia, a seconda della natura del prodotto stesso. 

Gli influencer possono essere suddivisi per numero di seguaci e la conseguente spendibilità che hanno in campo pubblicitario. 

-mega influencer. Hanno più di un milione di follower, generalmente hanno conquistato la loro celebrità fuori dai social, sono perlopiù celebrità del cinema, dello sport, della musica, tuttavia ci sono eccezioni come Chiara Ferragni che rientra tra i mega influencer ma ha costruito la sua fama online. Solo le grandi aziende hanno la disponibilità economica di rivolgersi a questi personaggi per pubblicizzare i propri prodotti.

-macro influencer. Hanno seguaci compresi tra i 40.000 e il milione. Sono generalmente personaggi famosi della televisione o opinionisti online e sono più utili alle aziende così come sono maggiormente in grado di influenzare l’opinione pubblica su tematiche diverse.

-micro influencer (tra i 1000 e i 40.000 follower). Sono persone comuni che si sono fatte conoscere per qualche competenza specialistica, hanno quindi una nicchia di persone sulle quali hanno un forte ascendente rispetto ad una tematica specifica.

-nano influencer. Hanno un ristretto numero di follower ma sono esperti in campi altamente specializzati, quindi i loro seguaci sono molto appassionati e interessati. Riguardo alle strategie di marketing però questi personaggi non hanno molto appeal.

Il ruolo dell’influencer non si limita tuttavia all’aspetto strettamente pubblicitario, questo personaggio ha infatti un ascendente sulla popolazione, può quindi influenzare l’opinione pubblica laddove si esponga a favore o meno un certo tema, può attirare l’attenzione su questioni particolari, magari poco considerate in un determinato momento, insomma ha un potere e un impatto rilevante sui suoi seguaci (o follower). 

Essendo una figura che nasce sui social, tra i suoi follower si contano molti giovani e giovanissimi, aspetto che dovrebbe far porre una serie di questioni sul potere educativo potenziale di un influencer che abbia un grande seguito.

 Un interessante articolo scritto sul Messaggero .it riporta frammenti di una conferenza tenuta da Tony Siino, social media strategist e creatore della classifica socialinfluencer.it, il quale fa un netto distinguo tra i cosiddetti opinion leader e gli influencer in quanto, afferma “cambia completamente la dinamica comunicativa. Come enuncia la teoria “Two Step Flow of communication”, i media colpivano gli opinion leader che a loro volta influenzavano le masse. Oggi, però, la massa ha la possibilità di interagire con gli influencer”. 

Come professionisti che lavorano molto con bambini ed adolescenti ci stiamo trovando di fronte a una rivoluzione anche per quel che attiene le fantasie e le aspirazioni dei ragazzi: anni fa il sogno era diventare un calciatore, un attore, un cantante. Oggi, sempre più spesso, ci troviamo di fronte a ragazzi che ci dicono di voler fare gli influencer da grandi. Questa dichiarazione spesse volte sconcerta l’adulto, poiché non riconosce un talento o un merito nell’esser un influencer, non vede la necessità di impegnarsi o studiare per diventare influencer e rimanda quindi al ragazzo questo, creando spesso una frizione tra i due mondi. Ma, come si dice: “se non sei parte della soluzione allora sei parte del problema”, quindi se il mondo adulto vedesse il potenziale educativo che c’è dietro a queste figure, visto appunto il grande seguito che hanno tra i ragazzi, potrebbe cercare di sfruttarne a pieno il potenziale per arrivare ai più giovani, veicolare messaggi importanti, far sì che possano essere figure educanti inseriti in una comunità che, nella sua globalità, aspiri a diventare una comunità educante.

SITOGRAFIA:

agendadigitale.eu

ilmessaggero.it

insidemarketing.it

lamenteemeravigiosa.it

Studiamo.it

Treccani.it

ZOOMBOMBING: UN FENOMENO IN ESPANSIONE

La pandemia mondiale causata dal virus Sars-Cov-2 ha modificato in maniera sostanziale le modalità comunicative interpersonali e imposto la necessità di ridurre più possibile gli incontri tra persone. Conseguentemente a ciò il mondo del lavoro, della scuola e dell’associazionismo, caratterizzati per loro natura da un crocevia di relazioni, hanno necessariamente dovuto riorganizzarsi nel trovare una modalità alternativa di comunicare tra più persone che tutelasse contemporaneamente la salute delle stesse e rispettasse le linee proposte dai vari governi.

In questo panorama sono fiorite una serie di applicazioni che danno la possibilità di incontrarsi virtualmente, vedendosi, parlandosi e potendo condividere materiale come documenti o slide, proprio come in presenza. 

Una delle applicazioni più utilizzate è Zoom la quale, secondo la società di analisi dati sulle app SensorTower, a febbraio 2020 è stata scaricata 6,2 milioni di volte, a marzo dello stesso anno 76 milioni di volte. Una cifra impressionante che fa capire la diffusione di queste piattaforme e di come il loro utilizzo sia rapidamente diventato una necessità spesso quotidiana.

Con la diffusione di questo nuovo spazio comunicativo, è nato e velocemente cresciuto, un fenomeno detto Zoombombing che consiste nell’intrusione di hater o troll all’interno di lezioni scolastiche, universitarie, riunioni di lavoro o di altro tipo, organizzate su piattaforme quali Zoom (dal quale appunto prende il nome), Meet, Google, Skype o altro. 

Nessuna piattaforma ad oggi è immune dall’attacco di questi disturbatori. Ogni videocall ha un ID identificativo o è raggiungibile attraverso un link fornito ai partecipanti a seguito del quale, talvolta, è richiesto un codice di accesso. Per attivare uno zoombombing basta avere i codici di accesso qualora siano richiesti o semplicemente il link o l’ID identificativo. Talvolta basta quindi che un partecipante giri il link ad un disturbatore (ad esempio uno studente potrebbe girare il link di una videolezione ad un amico che potrebbe irrompere nella videolezione in qualunque momento), altre volte vengono utilizzati canali come Twitter, Instagram, Reddit o 4Chan per scambiarsi link, password o codici di accesso, riguardanti le varie videoconferenze. 

Gli atti disturbanti sono perlopiù interventi verbali, immagini, video di natura razzista, omofoba, sessista, negazionista o mirati a prendere in giro qualche singolo partecipante. 

Il New York Times ha dedicato un articolo a questo fenomeno riportando storie di persone che lo hanno subito. Ad esempio durante una videoconferenza del Concordia Forum, una rete di individui di religione musulmana, sul tema della spiritualità durante la pandemia, sono apparse scritte razziste su alcune slide, dopodiché è stato fatto vedere un video pornografico. Interruzioni della stessa natura, riporta il giornale statunitense, sono capitate durante la discussione di una tesi di dottorato, in un incontro della Jewish Committee di Parigi e addirittura in svariate riunioni degli Alcolisti Anonimi. Un signore di Los Angeles ha dichiarato che durante tutti gli ultimi trenta incontri del gruppo di auto-aiuto cui ha partecipato, ci sono state interruzioni volte, quasi sempre, a schernire i componenti facendo apparire nello sfondo immagini di bevande alcoliche o di persone che bevono. 

L’organizzatore dell’incontro può, abbastanza facilmente, rimuovere il disturbatore dalla videochiamata ma spesso il clima dell’intera riunione è rovinato: basti pensare alla difficoltà che può avere un insegnante a ristabilire l’ascolto e l’attenzione in una classe di studenti in DAD (acronimo di didattica a distanza, termine diventato ormai di uso comune), oppure a come interventi razzisti, omofobi o volti a mettere in luce una difficoltà personale possano minare irrimediabilmente il clima emotivo del gruppo e la sensibilità del singolo.

Un portavoce di Zoom ha dichiarato come sia impossibile arginare i fenomeni di zoombombing ma sono stati dati alcuni accorgimenti che possono essere utili a limitarli:

  • organizzare incontri privati che richiedano un codice di accesso e una password e utilizzare una funzione simile a quella di una sala d’aspetto virtuale nella quale gli utenti sostano finché l’organizzatore non li fa accedere;
  • non condividere il link di una videoconferenza sui social;
  • rendere impossibile, attraverso le impostazioni, la condivisione dello schermo d parte di ogni partecipante;
  • utilizzare la versione più aggiornata della app.

SITOGRAFIA

Generazioniconnesse.it

ilpost.it

insidemarketing.it

Lofficielitalia.it

Quando l’altro sparisce: il fenomeno del ghosting

Il termine ghosting, nella sua accezione comportamentale, è stato incluso nel dizionario Collins, vocabolario inglese molto conosciuto, soltanto nel 2015 e viene definito come “l’atto o l’istanza di porre fine a una relazione romantica non rispondendo ai tentativi di comunicazione dell’altra parte”. 

In realtà il fenomeno del ghosting può verificarsi anche in relazioni amicali, laddove una persona sparisca improvvisamente dopo una fase di frequentazione anche intensa, senza dare spiegazioni, semplicemente negandosi, non rispondendo a chiamate, messaggi o mail.

Alcuni sociologi evidenziano come l’uso dei social network possa facilitare questo tipo di modalità di chiudere una relazione. Azioni che si possono compiere nelle piattaforme facilitano questo fenomeno: una persona si può “bloccare”, si può eliminare dalla lista degli amici, si può smettere di seguire. Tuttavia sono sempre esistiti individui che ponevano fine ad una relazione negandosi e negando all’altro quel momento di confronto nel quale, vis a vis, in un tempo e in uno spazio definiti, si abita quell’ultima fase della relazione, che garantisce la possibilità di un’elaborazione della fine stessa.

In psicologia il fenomeno del ghosting viene considerata una modalità passivo-aggressiva attraverso la quale un individuo pone fine ad una relazione interpersonale. Il comportamento passivo-aggressivo è considerato come un modo deliberato e mascherato di esprimere sentimenti di rabbia (Long, Long e Whitson, 2008). Chi agisce il ghosting si sottrae quindi al confronto con una non azione che di fatto cela però un movimento estremamente aggressivo verso l’altro, togliendogli la possibilità di capire, di chiedere, di sentirsi dire e lasciandolo con un vissuto spesso di frustrazione e di forte inadeguatezza, sovente accompagnato da sentimenti di vergogna, come se la persona quasi temesse di essersi immaginata l’importanza della relazione che fino a un attimo prima stava vivendo, come se non si sentisse meritevole di avere quel momento in cui ci si congeda.

Gili Freedman in una ricerca pubblicata sul Journal of Social and Personal Relationships approfondisce la diffusione del fenomeno in questione. Lo studio, che ha coinvolto 1300 americani adulti, ha stimato che Il 25% dei partecipanti ha subito il ghosting (quindi è stato lasciato dal partner senza alcun segnale); il 20% è sparito da una relazione affettiva (ha quindi attuato il ghosting come modalità per separarsi dal partner); il 31% è stato vittima di ghosting da parte di persone considerate amiche e il 38% ha posto fine ad un’amicizia senza alcun preavviso, semplicemente scomparendo.

La bibliografia e gli studi riguardanti questo fenomeno sono ad oggi ancora scarsi, ma la sua diffusione rende interessante un approfondimento dello stesso.

SITOGRAFIA

www.centromoses.it

www.collinsdictionary.com

www.iltascabile.com

www. psicoadvisor.com

www.tpi.it

Le Fake News

“Locuzione inglese (lett. notizie false), entrata in uso nel primo decennio del XXI secolo per designare un’informazione in parte o del tutto non corrispondente al vero, divulgata intenzionalmente o inintenzionalmente attraverso il Web, i media o le tecnologie digitali di comunicazione, e caratterizzata da un’apparente plausibilità, quest’ultima alimentata da un sistema distorto di aspettative dell’opinione pubblica e da un’amplificazione dei pregiudizi che ne sono alla base, ciò che ne agevola la condivisione e la diffusione pur in assenza di una verifica delle fonti.” 

Questa la definizione che l’enciclopedia Treccani dà del termine fake news.

Il fenomeno delle fake news è esploso recentemente di pari passo alla tendenza della popolazione dei paesi industrializzati a stare connessi costantemente alla rete e ai social network. 

Sul Web le informazioni si spostano ad una velocità inimmaginabile fino a pochi anni fa, il tam tam di condivisioni fa sì che una notizia possa rimbalzare fino a raggiungere la globalità degli utenti di internet in poche ore. E in questa velocità estrema il tempo per verificare, riflettere, approfondire una notizia è sempre più ristretto, inesistente spesso. È proprio qui che trovano terreno fertile le fake news, spesso utilizzate per generare nell’opinione pubblica delle reazioni, per manipolare le masse, spesso a fini politici o ideologici.

Il fenomeno delle fake news tuttavia è sempre esistito. Un interessante articolo scritto sul sito sociologicamente.it, fa risalire la prima grande notizia falsa della storia al III secolo d.c. con la donazione di Costantino, fake news finalizzata a rendere accettabili le pretese papali sul potere temporale. Questa vicenda, dimostrata poi falsa nel 500 al filologo Lorenzo Valla, narrava la miracolosa guarigione di Costantino dalla lebbra per intercessione divina di papa Silvestro I e di come l’imperatore, in segno di gratitudine, decise di convertirsi al cristianesimo e regalare un terzo del suo impero alla chiesa cattolica. Nella storia sono moltissime le notizie false che hanno avuto  un ruolo nel trovare consensi ad azioni politiche totalmente azzardate, certe volte addirittura folli e inumane, basti pensare al fantomatico piano che gli ebrei avrebbero architettato, intorno al 1921, per impossessarsi di tutte le ricchezze del pianeta, bufala sulla quale si è poi costruito quel consenso che ha portato ad identificare negli ebrei un pericoloso nemico comune da eliminare. 

Siamo quotidianamente e inconsapevolmente bersagliati da fake news che fanno leva sull’emotività dell’opinione pubblica per trovare consensi o per far convogliare l’attenzione su un argomento anziché su un altro.

La risonanza delle fake news aumenta in modalità diverse: attraverso la semplice condivisione delle persone di un’informazione; attraverso l’attività di giornalisti che diffondono in tempo reale notizie apparse sul web senza verificarne le fonti e che, in quanto fonti teoricamente autorevoli, hanno grande credibilità agli occhi delle persone che leggono; attraverso gruppi di influenza spesso collegati tra loro che cercano di manipolare l’opinione pubblica. 

Il film documentario The Social Dilemma uscito nel 2020 ad opera del regista Jeff Orlowski nel quale sono riportate interviste a figure di rilievo nella creazione dei social media, ex dipendenti, dirigenti e altri professionisti di aziende quali Facebook, Google e Apple, pone l’accento sul tema della tracciabilità dei comportamenti alla quale tutti coloro che usufruiscono di Google o dei social network sono esposti, sottolineando come le identità digitali filtrino e selezionino ciò che vediamo appunto sui social o nei motori di ricerca. Nei social media sono favorite le interazioni tra utenti con interessi comuni, cosa che contribuisce a far sì che tendenzialmente ciascun utente entri in contatto con notizie e informazioni in linea con le proprie opinioni, fatto che limita enormemente le possibilità di confronto costruttivo.

Il fenomeno delle fake news si sta rivelando così serio e globale che c’è il tentativo di limitarlo. Sottolineando come sia sempre possibile risalire alla fonte, poiché è possibile nascondere il proprio IP ma non azzerarlo, compaiono violazioni sia del codice penale che civile alle quali un autore di fake news può essere chiamato a rispondere, ad esempio abuso della credulità popolare, offesa della reputazione altrui, truffa, concorrenza sleale, turbativa del mercato interno dei valori e delle merci. Alcuni reati possono riguardare anche chi semplicemente condivide una notizia, di fatto contribuendo alla sua divulgazione. 

Lo stesso Mark Zuckerberg, nel 2018, annuncia l’introduzione di un survey per stanare pagine e profili dalle quali vengano diffuse informazioni false, dichiarando “Chiederemo alle persone quanto conoscano o meno una determinata fonte e quanto si fidino. L’idea è che alcune testate siano realmente portate avanti dai lettori, altre che abbiano delle società dietro. Attenzione: Questo aggiornamento non cambierà il numero di notizie che vedete su Facebook. Semplicemente cambierà gli equilibri portandovi verso quelle fonti che vengono giudicate più affidabili dalla community”.

Melissa Zimdars, docente di Media e Comunicazione all’Università del Massachusetts, dà alcuni consigli su come non cadere nel credere ad una fake news:

“-Evitare estensioni strane. Diffidate di siti che terminano con ”lo”, come Newslo. Di solito mischiano informazioni accurate con notizie false. Anche i siti che hanno estensione.com.co sono sospetti. Di solito la versione fake di siti di news legittimi.

Controllare altre fonti. Se vedete una storia che vi sembra incredibile, meglio controllare se altre fonti accreditate la riportano. Ispezionate i siti dei giornali noti e se non c’è traccia del cosiddetto scoop cominciate a dubitare.

– Fate una piccola verifica sul nome dell’autore dell’articolo. Ha firmato altri pezzi? Ha un profilo Twitter o Facebook o LinkedIn? Se non trovate nulla è probabile che si tratti di uno pseudonimo e quindi, spesso, di un articolo non veritiero.

Fate ricerca. Se un sito vi insospettisce andate a leggere la sezione “about us” o controllate se esiste su Wikipedia o se viene menzionato in altri contesti.”(tratto da Alle origini delle fake news: fenomenologia, tradizione e modernità).

SITOGRAFIA:

orizzontescuola.it

treccani.it

-sociologicamente.it

webindustry.it

USO, ABUSO E DIPEDENZA DAI SOCIAL NETWORK

Il mondo dei social network è una realtà relativamente recente che, in pochi anni, è diventata una costante per la maggior parte delle persone dei paesi industrializzati; basti pensare che la nascita del Word Wide Web risale solo agli inizi degli anni ’90. In poco più di venti anni l’utilizzo del web è cambiato enormemente, anche grazie alla nascita di devices quali smartphone, tablet, smartwatch, tutti ausili che rendono possibile una connessione alla rete costante e non più limitata ad un tempo e uno spazio specifico propria di quando, per accedere ad internet, occorreva un computer e una rete fissa.

Attualmente le principali piattaforme social sono Facebook, Instagram, Whatsapp, Tik tok, Twitter. Ognuna di queste piattaforme social ha un target di utenza che maggiormente la utilizza, tuttavia non è affatto insolito che le persone abbiano un profilo per ogni social. La necessità è quella di essere sempre connessi e tendenzialmente si verifica una distorsione nella percezione del tempo trascorso sui social. Il Sole 24 ore, in un articolo del 2017, riporta uno studio di Counterpoint Research su tremilacinquecento utenti in tutto il mondo dal quale emerge che il 26% utilizza lo smartphone 7 ore al giorno, il 21% dalle 5 alle 7 ore, il 29% dalle 3 ore alle 5, il 20% da un’ora a tre e solo il 4% meno di un’ora. Questi numeri, se analizzati all’interno di una giornata nella quale mediamente l’individuo dorme otto ore, fanno capire che fetta consistente di tempo viene trascorsa connessi e quanto tempo viene sottratto ad altre attività.

Lo stare sui social equivale, per molti, allo stare in contatto con amici e conoscenti, in una realtà virtuale che finisce spesso per corrispondere, nella rappresentazione mentale degli individui, alla realtà. Questo passaggio comporta molti rischi poiché salta la consapevolezza e il senso critico nei confronti di ciò che viene proposto: le notizie che circolano sui social vengono spesso prese per vere senza verificarne la fonte, vengono poi condivise sui propri profili contribuendo così a ingigantire il fenomeno delle fake news; le foto postate dalle persone, inoltre, spesso narrano di una realtà parziale, in cui vengono mostrati solo certi aspetti della vita, spesso ostentatamente felici e patinati, contribuendo a creare, soprattutto negli adolescenti o pre adolescenti, la convinzione che siano possibili esistenze prive quasi di sofferenza, di dolore, di momenti difficili e creando quindi i presupposti per una scarsa tolleranza a quegli stessi stati fisiologici ed emotivi, contribuendo a generare stati ansiosi e/o depressivi.

Nel 1996 Ivan Goldberg conia il termine Internet Addiction Disorder proponendone l’introduzione del DSM (Diagnostic and Statistica Manual of Mental Disorder) e individuando degli eventuali criteri diagnostici:

  • il bisogno di trascorrere in rete un tempo sempre maggiore e di connettersi sempre più    spesso, per ottenere soddisfazione;
  • la marcata riduzione dell’interesse per ogni altra attività che non riguardi l’uso di Internet;
  • La manifestazione di agitazione, sintomi depressivi e ansiosi;
  • l’incapacità di interrompere o tenere sotto controllo l’utilizzo di Internet;
  • Il continuare a usare il web nonostante la consapevolezza di aver sviluppato comportamenti patologici che hanno delle ricadute nell’ambito sociale, psicologico e fisico, come per esempio disturbi del sonno, problemi familiari e coniugali, problemi lavorativi. 

Nello stesso anno viene documentato dalla psicologa statunitense K. S. Young il primo caso di dipendenza da internet: una donna di 43 anni che trascorreva fino a sessanta ore settimanali in una chat room riferendo di sentirsi parte di una comunità virtuale. La dott.ssa Young raccoglie in seguito oltre seicento casi simili, riuscendo così ad evidenziare alcune caratteristiche comuni caratterizzanti le situazioni di dipendenza da internet, tra cui perdita o impoverimento delle relazioni personali, modificazioni dell’umore, alterazione nella percezione del tempo, tendenza a sostituire il mondo reale con quello virtuale, sintomi fisici quali tunnel carpale, dolori muscolari, dovuti alla posizione mantenuta per lunghi periodi e alla prolungata inattività fisica, pensieri disfunzionali su se stessi e sugli altri, sentimenti di inadeguatezza e scarsa autostima, disturbi dell’umore, di ansia e discontrollo degli impulsi.

Una ricerca del Codacons del 2019 riporta che “l’83% dei giovani italiani al di sotto dei 24 anni (3,6 milioni di individui) trascorre in media ogni giorno circa 4 ore online – spiega l’associazione – La maggior parte delle connessioni (pari a 3 ore e 52 minuti) avviene da smartphone, e più bassa è l’età più aumenta l’esigenza di restare collegati: il 51% dei ragazzi tra i 15 e i 20 anni ha difficoltà a prendersi una pausa da web e social e controlla lo smartphone in media 75 volte al giorno; il 7% dei giovani lo fa addirittura fino a 110 volte al giorno” (codacons.it).

Gli effetti dell’abuso di social network sugli adolescenti è estremamente grave e preoccupante, non mancano fatti di cronaca che lasciano l’opinione pubblica senza parole. Uno studio condotto negli Stati Uniti riporta una stretta correlazione nella fascia d’età 12-15 anni tra connessione al web e disturbi psicofisici, del sonno e dell’alimentazione, oltre che comportamenti che a volte sfociano nel cyberbullismo.

Di seguito alcune immagini provocatorie scattate dalla fotografa Tiziana Luxardo utilizzate dal Codacons nel calendario 2020 “Si selfie chi può”, una scelta attuata per porre l’attenzione sui rischi di un uso prolungato dei social.

SITOGRAFIA:

www.codacons.it

http://www.ilsole24ore.it

www.ipsico.it

http://www.ittc.it

www.stateofmind.it

Il fenomeno della Trap

La musica trap nasce dal rap ma allo stesso tempo se ne discosta molto sia per le caratteristiche tecniche musicali e di scrittura, sia per i temi trattati.

Nella Trap il suono è sincopato, le basi sono elettroniche e viene utilizzato l’autotune, un softwere che modifica la voce, spesso impiegato per l’intera durata del brano.

I testi Trap seguono una logica narrativa che procede per descrizioni sconnesse le quali contribuiscono a creare il caratteristico clima. “Tipici di questa strategia sono fenomeni sintattici come l’enumerazione e la giustapposizione asindetica (“Beve champagne / sotto Ramadan; / alla TV / danno Jackie Chan; / fuma narghilè / mi chiede come va”, da Soldi, Mahmood), e in generale la scarsa coerenza testuale (“Lei si specchia con la selfie dell’iPhone / beve Sauvignon / un urlo tra i palazzi, la Roma avrà fatto un gol” da Enjoy, di Carl Brave x Franco126)” (da artibrune.com). Le canzoni sono inoltre ricche di figure retoriche come l’antonomasia e sono ricche di citazioni prese dal mondo dell’arte, del cinema, della letteratura, della moda e del calcio; vengono inoltre utilizzate spesso parole anglofone, che contribuiscono a creare il tipico slang Trap, consuetudine ormai tra gli adolescenti.

I temi trattati si discostano molto da quelli di rottura tipici dell’hip hop e del rap, prevalgono testi che parlano dell’affermazione di sé attraverso una scalata al successo iniziata da zero, di donne conquistate attraverso la fama e spesso dipinte come oggetti e del denaro, ostentato anche attraverso l’immagine del cantante trap, che si presenta vestito in maniera eccentrica, griffato e ricoperto di ori e gioielli sgargianti.

Il nome trap ha origine dalle trap house americane, dei fatiscenti edifici abbandonati di Atlanta in cui, negli anni ’90 venivano acquistate sostanze stupefacenti. Questo genere musicale non nasce tra le mura delle trap house, tuttavia il degrado e il senso di perdizione che imperava in questi luoghi, segnano l’immaginario collettivo dei cosiddetti millennials, che riprendono e ricercano, nella musica, temi che immaginano imperassero nelle trap house, ovvero l’esaltare la droga, l’osannare una vita fatta di agi e ricchezze, discostandosi dal rap, non risultando mai antisistema né musica di denuncia.

La musica trap si sviluppa in Italia a partire dal 2011 in una dimensione di musica di alternativa, dal 2015 esplode con i principali esponenti trap italiani quali Ghali, Sfera Ebbasta e la Dark polo gang

La peculiarità della trap è che nasce da YouTube e, da lì, si propaga nelle radio e nelle televisioni. In altre parole, prima erano gli enti radiofonici e televisivi che decidevano quale musica passare, proponendola alla popolazione e influenzando di fatto i gusti e le scelte musicali della gente. Con la trap avviene esattamente il contrario: i cantanti (spesso anche improvvisati, vista l’apparente semplicità di cantare questo genere musicale) diventano prima star di YouTube, attraverso un passaparola, un’escalation di condivisioni e di visualizzazioni, poi queste scelte degli adolescenti influenzano e in qualche modo decidono che cosa verrà distribuito via radio.

La trap è dunque definibile come un genere musicale proprio degli adolescenti attuali, che li rappresenta e li definisce.

SITOGRAFIA: